
Le sue giacche sono rimaste nell’immaginario di film di culto, a cominciare dal Jep Gambardella de La Grande Bellezza. Ma con Cesare Attolini se ne va l’arte e la dedizione di un sarto raffinato, degno erede del fondatore della maison Vincenzo che – con i suoi tagli destrutturati e i tessuti leggendari, con la cura maniacale per i dettagli, e i dettami dell’insuperata scuola d’eleganza partenopea – ha accompagnato anche nel privato, in ogni parte del globo principi e divi, da De Sica a Mastroianni, da De Niro a Dustin Hoffmann. Fino agli stessi Sorrentino e Servillo. Che scelsero le sue creazioni fin sul palco di Hollywood, e celebrando quel premio Oscar in smoking di fattura napoletana, saldarono la statuetta a un’altra sofisticata eccellenza.
Un grande maestro scomparso ieri, e salutato, con parole toccanti anche sui social, dai figli Massimiliano e Giuseppe, che portavano avanti con successo una tradizione riconosciuta nel mondo.
Attolini aveva 91 anni. “Addio Maestro Cesare, sarai sempre con noi, insieme nella nostra amata sartoria. Un uomo visionario generoso appassionato autentico, umile per la sua grandezza”, scrivono i figli, parlando anche a nome di tutti coloro, che da New York a Dubai, oggi rappresentano la forza di un marchio iconico. Che ha saldamente voluto un nuovo, grande stabilimento a Casalnuovo, nell’hinterland napoletano, che ha unito l’investimento sulla tecnologia e la sostenibilità alla tradizione sartoriale del territorio. Anni prima c’era stato l’amaro addio alla sede storica di Chiaia, il salotto bene della città.
“Oggi ci lascia non solo un grande sarto, forse il più grande – scrive la sua famiglia – ma soprattutto un grande padre che ha saputo amare i suoi figli, la sua famiglia e tutti i suoi innumerevoli allievi come solo chi ha un cuore grande sa fare”. “Il tuo immenso spirito guida sarà sempre con noi. Ogni giorno, come ieri, per sempre», lo salutano ancora, accanto ai figli, “tutta la famiglia dei sarti Cesare Attolini”.
Un interprete dello stile italiano nel mondo che, da buon partenope, giocava di ironia. A ogni celebrazione, a ogni complimento infatti reagiva con la battuta che amava: «Un buon sarto non è altro che un artigiano che fa vestiti imperfetti per corpi imperfetti».
Amava la sottrazione, ma cercava l’eccellenza e istruiva i suoi a raggiungerla. Tra le 25 e le 30 ore di manualità dedicata a ogni singolo capo. La perfetta corrispondenza tra stagione e peso: lino e lana sottile per l’estate, cachemire e tweed per l’inverno. Oltre alle raffinate varianti offerte da un mix di vecchia scuola e innovazione per le fibre naturali. E poi la giacca privata di ogni rigidità, le maniche a “mappina”, quell’equilibrio tra solidità e morbidezza difficile e imprescindibile nei capi maschili più ricercati. Tra gli ultimi divi a essere vestiti da lui, e dai figli Giuseppe e Massimiliano che già da tempo ne avevano assimilato cultura e maestria, c’era John Malcovick, l’ultimo “papa” di Sorrentino. Fu un altro dei suoi innumerevoli estimatori.