
Un corsaro del pensiero critico. Un irregolare di scuola liberale. Uno sconfitto tra gli sconfitti. È difficile individuare nel panorama degli intellettuali attivi tra le due guerre mondiali la casella giusta dove posizionare la figura di Adriano Tilgher di cui il 3 novembre 2021 cade l’80esimo anniversario della morte. Sicuramente fu un antifascista battagliero, firmatario nel 1925 del manifesto degli intellettuali promosso da Benedetto Croce con il quale l’intelligenza liberale marca la rottura con il regime del colpo di stato. Troviamo il nome di Tilgher insieme a decine di personalità di rilievo: Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Roberto Bracco e tanti altri, i nomi più noti e rispettabili della cultura nazionale e locale dell’epoca.
Su di lui tuttavia in questi lunghi decenni è come se fosse calato il velo dell’oblio, contrappasso per un pensiero scomodo. “Chi educherà il popolo” si chiede Tilgher. “L’élite. E l’élite chi la sceglie? Il popolo. E allora come può il popolo scegliere una élite che valga più di lui e che lo educhi. Di qui il dramma storico delle democrazie”, scriveva nel 1938, alla vigilia del conflitto mondiale, e sembra oggi. Un contributo alla riscoperta di Tilgher viene dalla recente pubblicazione del “Diario politico 1937-1941” nell’edizione curata da Claudio Giunta dell’Università di Trento per le Edizioni della Normale. Giunti ha ripreso il manoscritto custodito nella Biblioteca Nazionale di Roma e lo ha arricchito con una bella introduzione.
Nato a Resina (l’attuale Ercolano) nel 1887 da padre tedesco e da madre francese della Val d’Aosta, sebbene di condizioni modeste fu favorito negli studi di filosofia dalla conoscenza della lingua di Fichte e Hegel. Seguace di Croce come quasi tutti i giovani studiosi napoletani, se ne allontanerà perché considerava lo storicismo di don Benedetto inadeguato a spiegare il relativismo e l’irrazionalità dominanti in Italia e in Europa durante e dopo la Grande Guerra. Nel 1925, l’anno in cui sottoscrive il manifesto crociano antifascista, pubblica pure un corrosivo libello, “Spaccio del bestione trionfante”, il cui bersaglio senza mai nominarlo è Giovanni Gentile, il filosofo del regime, già potente ministro della pubblica istruzione che gliela farà pagare spingendolo a lasciare il posto sicuro di bibliotecario a Roma. Tilgher per guadagnare intensifica la sua collaborazione con giornali e riviste.
Probabilmente il bisogno lo induce nel 1928, quando ormai il fascismo s’è fatto dominante, a mandare una lettera ruffiana al capo ufficio stampa di Benito Mussolini in cui chiede di poter continuare a scrivere. Sarà lo stesso duce a suggerire che sia Tilgher, per redimersi dal suo antifascismo, a stroncare con una recensione negativa il maestro d’un tempo, il Croce della “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”. Ma nonostante il cedimento davanti a un regime sempre più totalitario la polizia fascista continuerà fino alla morte a tenerlo sotto controllo. Non si fidava e a ragione. Tilgher resta uno spirito libero e nel suo “Diario” postumo annota: “Nei regimi di libertà, essendoci libertà di parola e di critica, è naturale che il pubblico se ne serva, più che per lodare, per criticare e lamentarsi: di qui l’apparenza che in quei regimi tutto vada male”. Anche in questo caso parole ancora attuali.
Non solo polemista politico, ma soprattutto raffinato critico letterario. Negli anni della dimenticanza infatti lo si trova citato, sia pure raramente, quasi solo come tempestivo interprete del teatro di Luigi Pirandello “nel contrasto tra la Vita e la Forma”.
Secondo il curatore del “Diario”, Claudio Giunta, Tilgher ha avuto la sventura di morire troppo presto, non solo per l’età, 54 anni, ma per l’epoca; se ne andò infatti quando la guerra non era ancora finita così da non aver avuto l’opportunità, concessa ad altri che pure erano stati meno intransigenti di lui verso il fascismo, “di spiegarsi, giustificarsi, cambiare idea e casacca, e anche far valere qualche benemerenza (una decennale sorveglianza da parte della polizia politica e negli ultimi anni, tra l’altro, la probabile collaborazione con Giustizia e Libertà)”. Così da sparire dal panorama culturale.
Nella città natale, Ercolano, lo ricordano una scuola superiore, attiva con iniziative legate al sociale, e una lapide in marmo posta nell’atrio del Municipio nel centenario della nascita: “Filosofo, saggista, critico”. Oggi diremmo, libertario.