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Da Euripide ai social media: venti secoli di solitudine

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Dalle nostre vite claustrali indotte dal Covid; da questo nostro essere – spesso forzatamente – con noi stessi finché un vaccino non ci restituisca alla vita sociale; da questa inedita e inaspettata condizione nasce la “Storia della solitudine” di Aurelio Musi, una riflessione su noi stessi dalla Grecia antica ai giorni nostri, densa di coltissimi riferimenti. Un percorso narrativo attraverso i secoli con lo sguardo dello scienziato politico e la sensibilità dello storico formato alla scuola di Giuseppe Galasso. Da Euripide ai social, la conclusione di Musi sembra paradossale ma non lo è poi tanto: proprio quando potremmo essere meno soli, grazie agli infiniti strumenti della comunicazione contemporanea, la solitudine “maledetta” scava le tracce più profonde nel nostro animo.

“Mai come prima nella vicenda umana – riflette Musi – la solitudine rischia di diventare una condizione permanente e diffusa. La radice indoeuropea della parola è “se”, cioè separato. Un elemento di separazione lo trovi in tutte le epoche in cui si vive la solitudine. Nell’era della globalizzazione questa condizione diventa atomismo, tanto più forte in seguito alla pandemia. Cosa sono gli assembramenti di giovani se non la risposta alla paura della solitudine? Questa tensione a stare insieme è perfino più forte della paura di morire. Ma nell’epoca del massimo incontro sociale attraverso il web – argomenta Musi, storico collaboratore di “Repubblica” a Napoli fin dalla fondazione della redazione nel 1990 – la solitudine tocca il suo punto forse più alto e trova corrispondenza anche nelle statistiche in vertiginoso aumento dei suicidi”.

In principio fu Euripide. È la solitudine l’essenza della tragedia greca come colse Nietzsche, la “grandiosa solitudine” dei filosofi, gli unici vissuti solo per la conoscenza. Euripide descrive la solitudine dell’uomo come uno stadio negativo, che dev’essere superato. Così anche in età romana, con Cicerone, che dopo la delusione della politica elogia la vita contemplativa in attesa della morte che libera lo spirito. E solitudine era anche quella delle donne, condannate al silenzio, alla subalternità al maschio. “Il passaggio alla solitudine come dicotomia, esperienza negativa ma anche feconda per l’individuo – spiega Musi – avviene con la rivoluzione del Cristianesimo. L’io si identifica con Dio, con la trascendenza: l’uomo si salva solo così”. Il Dio che si incarna colma la distanza con la divinità, quindi non siamo più soli nel mondo. È il tempo della “beata solitudo, sola beatitudo”, la frase che si legge in tanti chiostri e certose, documentata la prima volta nel XVI secolo, in una raccolta di poesie del sacerdote olandese Cornelis Musius, ad Anversa nel 1566. Dunque, come rileva Sant’Agostino, abitare la propria interiorità aprendola all’incontro con Dio e con gli altri è la suprema forma di beatitudine. In un libro ricco di figure femminili, vale per tutte l’esempio di Santa Maria Egiziaca, prostituta per scelta, avvolta in un alone esotico, che si converte a Gerusalemme dopo aver condotto una vita dissoluta. Che trasforma in “beatitudo”, ovvero in vita solitaria ed eremitica, per realizzare la piena identità nella comunione con la trascendenza.

A Napoli due chiese sono dedicate a Maria Egiziaca, ma nel Medioevo le donne eremite erano figure diffuse, che si salvavano – o si perdevano – con gesti di ribellione individuale. Petrarca, con l’Umanesimo e il Rinascimento, apre la strada alla “solitudine del dotto” come scelta intellettuale, il sapiente che si ritira nel suo studio a meditare sull’insegnamento dei classici. Nella letteratura spagnola Don Chisciotte diventa il prototipo della sensibilità dell’uomo moderno, della solitudine come erranza, che è poi un modo per sfuggire alla solitudine stessa. Montaigne sentenzia che “la più grande cosa del mondo è saper stare con se stessi”, la solitudine è la via maestra, oppure, come annotava Leopardi, è “il risorgimento della immaginazione”. Il “prisma della solitudine”, scrive Musi, illumina il lungo Ottocento da Goethe a Schnitzler. Si trasforma nella condizione alienata dell’uomo moderno, al centro della riflessione di Hegel, Marx, Marcuse, fino alla “malattia dell’io” di Fromm. La meditazione più compiuta arriva da Hannah Arendt, che descrive l’uomo “estraniato”, circondato dagli altri ma privo di contatti con loro, esposto alla ostilità collettiva e insieme fonte di ostilità. È la condizione di abbandono individuale che apre la strada al dominio totalitario. Ora, avverte Musi, “i rischi e gli effetti di una solitudine di massa sono ancora ben presenti nella società del XXI secolo”.

Le reti social che si stendono da un capo all’altro del mondo sono ambivalenti, lasciano coesistere solitudine e opportunità di incontro. Nella misura in cui restano strumento di relazioni e non il fine ultimo di una proiezione collettiva e cieca di sé, i social svolgono una funzione importante. La tendenza all'”outing”, a mettere fuori se stessi oltre ogni riservatezza per trovare persone amiche, può rimanere anche una spinta irrisolta. Tutti amici, nessun amico. Come la didattica a distanza nelle scuole, positivo elemento di socializzazione se va oltre il rapporto bilaterale tra docente e studente. Che è poi la risposta della cultura. E del libro di Musi, in compagnia del quale mai si è soli.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2021/03/03/news/social_media_covid_solitudine_libro_musi-290108367/?rss

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