La battaglia sembra che tu l’abbia vinta, Mario mio, forse ti lasciano andare, finalmente libero, via da un corpo che non t’appartiene più, via da tutte queste regole che t’imbrigliano. Sono felice che tu possa sentirti fiero d’aver combattuto dal letto di casa; è così ingiusto dover convincere gli altri della propria sofferenza, dell’indomabile stanchezza, così assurdo che un uomo lucido non possa decidere per sé, e che un giudice non abbia una legge alla quale chiedere aiuto. Hai ragione, in questo strano Paese le decisioni difficili le devono prendere i cittadini, la politica non s’azzarda, e così si raccolgono le firme, ci s’affida ai referendum.

Sei così mingherlino dentro il materasso, che mi prende ogni volta l’affanno a osservarti. Mi pare d’averti ancora piccino, di non averti mai visto adulto. Come quando ti raccontavo le favole la sera, e mi fermavo ad aspettare che dormissi bene prima d’andare. La stanza è silenziosa, uguale a sempre. Lo sguardo mi cade sugli stessi punti, sul cielo azzurro dietro la testiera, fisso il tuo petto che s’alza e abbassa piano, e non serve il mio aiuto.

Dormi sereno, o forse fingi, forse t’annoia tenerli aperti gli occhi; allora t’immagino bambino, il sorriso furbetto, la gioia che non trattenevi. Venivi a cercarmi in cucina, ti arrampicavi sullo sgabello, mettevi le mani nell’impasto dolce, e ridevi, t’inzaccheravi il maglione, e poi il ditino me lo infilavi in bocca, per farmi assaggiare. Il vetro della finestra era puntellato di gocce, il tintinnio rassicurante della pioggia fuori, il caldo della casa d’inverno, l’allegria che i figli portano ai pomeriggi uggiosi.
Roccaraso, l’orso ruba i dolci e gira in centro. Il Parco: “Ti vogliamo bene, ma torna tra i monti…”

Mi dolgono le gambe, mi sistemo sulla sedia, scruto le mie mani piene d’acciacchi. Penso a tuo padre, al quale confidasti che forse un giorno avresti lottato per il suicidio assistito, se proprio ti fosse diventato impossibile vivere così. Ti sembrava già allora l’unica possibilità di fuga. Sarebbe orgoglioso di te, sai, che hai la caparbietà sua, e forse il coraggio mio.
Perché io non ho paura ad accompagnarti, fin dove posso, contro tutti, anche contro la legge, se è il caso. Dopo mi metterò alla finestra e ti cercherò nel cielo, e nei giorni di pioggia tenderò l’orecchio, per riascoltare quel tintinnio dolce, per immaginarti di nuovo allegro e incontenibile.