
Entri a Villa Teresa, al Lago Patria, e trovi una dimensione parallela. Intuisci la geometria di una piscina, il campanile di una chiesa fatta erigere per il rione e l’asta con tre bandiere: il tricolore bianco-rosso-verde, la Union Jack e la Flag of United States. Non perché a due passi c’è un quartiere generale della Nato ma perché le amate figlie del signore che ci accoglie vivono in quelle terre lontane. Mario Trevi ride garbato, indossando una cravatta celeste fuoco e i gemelli d’argento.
Racconta e intona. La conversazione avviene nel suo piccolo museo: un archivio strepitoso in cui custodisce – tra effigi della Vergine e Gesù Cristo, ritratti di Raffaele Viviani e Totò – tremila dischi fra 78, 45 e 33 giri, ma anche grammofoni, manifesti, fotografie, fascicoli di Piedigrotta e dei Festival di Napoli.
Il Novecento musicale napoletano, del resto, gli appartiene. Al muro c’è pure la copia del contratto della prima incisione con l’etichetta Royal (poi assorbita dalla Durium), anno 1959, e lo spazio riservato al nome dell’artista è vacante poiché non esisteva ancora Mario Trevi.
C’era solo un desideroso, impaziente e fiero Agostino Capozzi, originario di Melito. Fiero quanto il nome d’arte che scelse guardando l’insegna di un calzaturificio al Rettifilo di Napoli.
Quel giorno Capozzi calò il sipario e Trevi iniziò a cantare in palcoscenico: “Si ce lassammo”, “Mare verde”, “Mandulinata blu”, “Feneste e fenestelle”, “Catena”. Memorie intatte del nonno dello show che vive in simbiosi col nipote-factotum Salvatore Architravo, di recente autore di un libro-antologia nel quale manca solo la medaglia di Napoli ricevuta dal sindaco Gaetano Manfredi.
Mario Trevi, ma c’è qualcuno che la chiama tutt’ora Agostino?
“Quelli che vogliono dimostrare intimità. Poi però ci infilano Mario per dimostrare di essere miei fan.
Mario sa imporsi e per cantare in pubblico il primo a credere in te devi essere tu. Ai festival ero sempre il più piccolo e dovevo confrontarmi con cantanti come Sergio Bruni, Maria Paris, Giacomo Rondinella, Aurelio Fierro, Mario Abbate. Ho iniziato a cantare nelle strade, di sera, a Melito, e dai balconi mi lanciavano acqua addosso. Mi riparavo furbamente sotto ai muri. Pian piano ho chiesto di esibirmi all’Opera dei pupi e mi concessero di cantare gratis nel retropalco perché mio padre non doveva saperlo. Per lui la musica non era un lavoro vero. Ma ho fatto di tutto, tranne il ladro: il garzone, il muratore, il contadino, l’ambulante, il commesso”.
“Si ce lassammo”, “Mare verde”, “Indifferentemente”. Può descrivere con un ricordo ognuna di queste esperienze?
“Il primo pezzo è legato a un incontro con Alfredo Razzieri, storico impresario del Teatro 2000. Incidemmo la canzone e la Royal vendette 500 mila copie del 78 giri. Partecipai al Festival di Napoli da minorenne, con un escamotage. Grazie al successo ebbi la telefonata dello scrittore Giuseppe Marotta (autore de “L’oro di Napoli”, ndr) che in Galleria Umberto I mi propose la sua canzone “Mare verde”, musicata da Salvatore Mazzocco. In gara mi accoppiarono a Milva e il risultato fu un exploit ovunque. Mazzocco era artisticamente innamorato di me e di lì a poco mi propose “Indifferentemente”, in duo con il mio fratellone Mario Abbate. Secondo posto al Festival di Napoli 1963 e un destino felice che l’ha portata a tutti nel mondo”.
Rispetto ai lavori di gioventù, quando ha capito che la musica sarebbe stato il suo vero mestiere?
“Durante i festival. Ho capito che dovevo dedicarmi seriamente alle canzoni anche per la responsabilità verso la mia famiglia. Così decisi di pagare un maestro che veniva a casa, a via Manzoni: volevo farmi insegnare la corretta dizione e l’uso dei verbi”.
Nel 1965 muore sua moglie Titina. Dopo quel lutto ha mai pensato di interrompere la carriera musicale?
“No, perché mia moglie è nata dando alla luce la nostra seconda figlia, Immacolata. I festival premevano, interiormente soffrivo ma non potevo fare dietrofront. Mi sono risposato due anni più tardi. Il mio compare di nozze mi suggerì di sposare una sorella di mia moglie; ero contrario, invece aveva ragione lui perché le mie figlie hanno ricevuto da Teresa un amore raddoppiato”.
È una leggenda o risponde a verità il fatto che nei concerti di piazza lei esigeva di essere pagato prima di cantare?
“È tutto verissimo. Anche Mario Abbate, Franco Ricci e altri colleghi facevano così. Se sei la vedette e girano attorno a te somme alte non puoi fare altrimenti. Ci fosse stato un impresario che tentava scherzetti, era subito frenato nelle intenzioni”.
Il gusto per le giacche dai colori esplosivi e le cravatte stravaganti quale origine ha?
“Mia figlia Adriana vive a Phoenix, in Arizona, e andando da lei ho scovato capi estrosi. Negli anni ’70 ho cantato sceneggiate assai applaudite a teatro – tra queste: “Cella 17”; “‘A pagella”, poi adattato in film con Marisa Laurito; “‘A mano nera; “‘O tesoro”. I look erano eccentrici, chiedevo ai sarti colori ad hoc consultando le fascette dei pantaloni ed ho conservato tanti pezzi da quei guardaroba. Diciamo che Renzo Arbore ha la identica passione mia. O viceversa, chissà”.
Oggi è ancora il capo di una carovana di artisti …
“C’è mio fratello Franco Moreno, mio fratello Franco Sereno, mio nipote Gianluca Capozzi. Ognuno ha la sua sorte”.
Tra gli incontri speciali, chi mette sul podio?
“Totò. Un privilegio assoluto. Cantai alla Festa del Monacone, presieduta da Luigi Campoluongo, alias il guappo Naso ‘e cane che aveva ispirato “Il sindaco del Rione Sanità” di Eduardo De Filippo. Zio Luigi mi chiese di sostituire Tullio Pane, ammalato. A quella gente non potevi dire no. Promise che avrebbe ricambiato la mia cortesia. L’indomani andò a prendere Totò a Roma per la festa di quartiere qui a Napoli. Arrivammo ai Parioli e Totò a casa sua fu un incanto pieno di malinconia. E il Principe volle che cantassi per lui “Malafemmena””.
Si è mai pentito di aver interpretato certe canzoni di malavita, Trevi?
“Mi dispiace di averle interpretate per la loro scarsa qualità artistica ma ammetto che il guadagno non era da sottovalutare. La città non aveva più i suoi festival e noi artisti avevamo poche fonti di introiti. Per il pubblico, badi, i cantanti sono come dei negozi: allora andava di moda quel tipo di canzoni e abbiamo deciso di accontentare le richieste della gente”.
A ottant’anni, un artista con il suo vissuto, celebrato anche dal collettivo rap-funk Sangue Mostro con un campione vocale nel pezzo “Magliari”, quali desideri ha ancora?
“Fare una trasmissione televisiva come quelle che conducevo negli anni Settanta su Canale21. Gli artisti oggi esistono ma non sanno quasi cosa cantare. Dal 1976, con mia moglie e i miei nipoti, vivo qui coccolato dalle piante e dal mare e vorrei esibirmi in concerti con un’orchestra per interpretare ancora una volta quei classici romantici con cui sono diventato un uomo”.