
Fabrizia Ramondino scrisse che “Napoli usa seguire i suoi concittadini, come un’ombra, se si trasferiscono altrove”. Ne sono convinta anch’io. Sebbene il mio sguardo sia quello di chi la osserva da lontano, posso affermare che mai ho smesso di sentirmela accanto. Il suo è un seme che seguita a germinare malgrado la distanza e la sua natura è interrogativa e misterica. Sempre la Ramondino dichiarava che la sua scrittura coincideva col suo corpo “contenitore fragile della (sua) dismisura”. Mi è parso che il correlativo più naturale di quest’immagine fosse la città di Napoli. Anche Napoli, difatti, è un corpo fragile che tenta perennemente di contenere una dismisura. Non è vero che le grandi città si assomigliano tutte. Napoli è una città-mondo in cui tuttora convivono contraddizioni esasperate, realtà in bilico tra l’orrore e l’incanto.
È un luogo con un’identità unica, inimitabile di cui è difficile scrivere o parlare senza cadere in qualche misero cliché.
Le dismisure della città sono infinite: una bellezza scenica che lascia senza fiato si mescola allo scuro di certe vie in cui tutto sembra sfaldarsi irreparabilmente; le curve sinuose del Vesuvio, che sono il fondale sia del lungomare pedonalizzato che degli spiazzi dismessi delle fabbriche. La vista del vulcano varia a seconda del punto che la inquadra, fa da linea di orizzonte oppure da limine incombente. Questo si può dire anche del mare, del magnifico golfo sul quale la città si spiega: ci sono posti dai quali non si scorge, neppure se ne intuisce la presenza, e poi c’è la collina di Posillipo dove si può trovare una tregua dal pericolo e riposarsi gli occhi. Il suo corpo, il corpo di Napoli che tutto ciò dovrebbe contenere, per contro, risulta infragilito dai millenni.
Il governo di una città tanto complessa è pur’esso articolato e assai complesso. I problemi, atavici, da affrontare, neppure li nomino. Non v’è giorno in cui qualche notizia non li porti all’attenzione e sembra quasi che la coazione a ripetere sia un gorgo, che mai si impari dal passato.
Quand’ero a Napoli vivevo a Napoli Est, la zona industriale, in un condominio abitato per lo più da famiglie di operai. La mia infanzia però l’ho esperita negli anni Settanta, anni in cui la fabbrica era ancora madre, in cui mio padre, anch’egli operaio, indossava con fierezza la sua tuta blu. Ciò nonostante mi sento di raccontare che, malgrado fierezza e dignità, niente era facile abitando in quel quartiere e che ciò che salvava noi bambini era l’infanzia giacché nell’infanzia si sopravvive a quasi tutto grazie a una forza oscura e resistente. Ma sopravvivere non basta e forse è proprio dai margini che dovrebbe iniziare un cambiamento – sempre annunciato, sempre imminente e puntualmente disatteso – per poi riuscire a preservare il centro. Se in un corpo incancrenisce un arto l’infezione poi arriva fino al cuore.
Nel quartiere in cui sono cresciuta la bellezza era solo un inciampo. Si giocava nei cortili affumicati dagli scarichi, sotto le nubi vaporose delle fabbriche, accanto ai cassonetti che traboccavano rifiuti e che, a sera, venivano incendiati.
Si faceva il nascondino circondati dai serbatoi e dalle ciminiere e il verde più vicino era quello del bosco di Portici o della sua villa comunale dove ci accompagnavano di rado per farci spurgare il tossico, sperando che bastasse. Quando si usciva dalla scuola – con le aule che a stento ci contenevano, pigiati, senza palestre spesso, senza altre attività che non fossero quelle canoniche, di base – non c’erano strutture sportive, centri di aggregazione, biblioteche, parchi. Non c’era niente, se non un cortile arrembato dai branchi dei randagi. Accanto a qualche casa a pianterreno, le seggiole coi vecchi, che ci guardavano correre e strillare tra le auto in sosta e i cani.
Se la bellezza non viene contemplata è cosa grave. Riconoscere la bellezza è un atto politico e contemplarla genera una risonanza. Fa nascere il desiderio di custodia, ci rende grati e pronti a difendere quanto ci sta attorno, rende addomesticabile la dismisura, la incanala nella benignità. Nei miei ritorni, però, mi accorgo che poco o nulla è mutato, che le difficoltà sono le stesse, se non peggiori. Le aree industriali dismesse restano dei territori disseccati, privi di scopo e quindi più attaccabili. I bambini scorrazzano ancora nei cortili, privi di scopo pure loro e i vecchi neppure mettono più le sedie fuori agli usci. È un’infanzia che non viene vista, si aggira fantasmata e vulnerabile alla mercé dei cani di bancata.
Il governo di una città da là dovrebbe principiare e fare in modo che ciascun quartiere divenga, in fondo, a sua volta una città più piccola e non un ghetto. Se ne discute ovunque, ultimamente: riqualificare, creare spazi verdi, dotare di servizi territoriali, prestare cura e soprattutto decentrare la cultura attraverso iniziative capillari che sappiano guidare lo sguardo sulla bellezza. Ed educarlo, per pretenderla e imparare a preservarla.
Così che dagli arti si arrivi poi al cuore cittadino, minato anch’esso da un altro pericolo insidioso: il miraggio di sfruttarne fino all’osso l’attrattiva.
Anche questo vedo, a ogni mio ritorno: un centro sotto l’assalto del turismo facile. Altre grandi città sono capitolate a questa lusinga elementare, e hanno perso. Le vie riempite di locali in cui si mangia, stese di tavolini, odore di cibo ovunque e paccottiglia a buon mercato in ogni dove. In questo modo, qualsiasi quartiere si snatura, diviene solo una rappresentazione un po’ noiosa, una duplicazione inutile – anch’essa a buon mercato – di qualcosa di fasullo, imbarazzante. C’è un orgoglio fallace a credere che questo sia progresso. Si rischia, anche in questo caso, di minare il concetto di bellezza e, al pari dei quartieri periferici, di vedere sparire i vecchi seduti sulle seggiole sugli usci e di lasciare i bambini a correre senza scopo, e a sopravvivere.