lunedì, 29 Maggio, 2023
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Napoli, teatro: “La delicatezza del poco e del niente”, il concerto di una voce alla Sala Assoli

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Il palco di Sala Assoli sembra un pozzo nero: interrato sotto il manto stradale, scuro, con attorno mura che sono state lasciate spoglie. Al centro un leggio, sul leggio una ventina di fogli. Roberto Latini entra da destra compiendo un percorso innaturale, quasi manierato: taglia in obliquo la parte posteriore dell’assito, si pone sul fondo e lì attende mentre un sonoro gracchiante cresce imponendosi all’ascolto. Calano un po’ le luci, Latini quindi avanza, toglie la giacca che ha addosso facendone un tappeto su cui appoggia i piedi nudi, inclina la schiena, afferra con la sinistra uno dei due microfoni che ha nei pressi della bocca e comincia a dedicarsi alle parole che stasera vuole dire. 

Ebbene, ci sono in questo frammento iniziale i fondamenti de “La delicatezza del poco e del niente”: c’è l’importanza suprema data ai versi di Mariangela Gualtieri, poetessa e teatrante cesenate: compongono la drammaturgia e sono collocati materialmente in scena, prima che tutto cominci, in quanto sono l’origine e il presupposto di ciò che avverrà stasera; c’è il commediante, il dicitore, non l’uomo ma l’artista, che si muove in maniera studiata ma pudica e incerta verso queste parole, con cui farà guerra e pace, la lotta, l’amore; c’è inoltre (nell’inclinazione bassa dello sguardo di Latini) tutta la devozione, e tutto il sacrificio di sé, dell’interprete che si pone al cospetto del testo, quasi con la stessa umiltà con cui un credente si pone al Cristo: sono solo un tramite, un risuonatore, sono una cassa carnale di risonanza, pare dirci fissando i fogli che adesso sfiora con l’indice, il medio, l’anulare della destra, cominciando: “Io non so” afferma quindi citando dal Parsifal “se questa mia vita sta spianata su un buco vuoto” e pare che a un tempo dica di Mariangela Gualtieri quand’è impegnata con l’atto insicuro della scrittura, e pare dica di ogni attore che si presenta sull’orlo della ribalta, di fronte il nero degli spalti, e pare dica di ogni uomo, alle prese con la missione di dover vivere e di dover dare un senso a questo vivere. 

“La delicatezza del poco e del niente” (regia e interpretazione di Roberto Latini, le luci sono di Max Mugnai, la musica e il suono di Gianluca Misiti, produzione Fortebraccio Teatro e Compagnia Lombardi-Tiezzi, in scena a Sala Assoli ancora stasera alle 20.30 e domani alle 18) è dunque il concerto di una voce recitante, che viene da un corpo che s’annoda fisicamente al microfono tastandolo, stringendolo, sfiorandolo, ora allontanandosene di qualche centimetro, interrompendo ogni relazione con lo strumento, ora invece rendendolo parte di se stesso: adagiato a una guancia o alla fronte, poggiato al mento, tenuto tra i palmi delle mani. Come ogni concerto che si rispetti prevede una scaletta di pezzi – sono poesie tratte da alcuni tra i volumi della Gualtieri: Fuoco centrale, ad esempio, e Voci tempestate, Sermone ai cuccioli della mia specie, Paesaggio con fratello rotto (li trovate in libreria, editi da Einaudi) – e, proprio come un concerto, accade che progressivamente il performer quasi svanisca, cedendo il passo alla bellezza delle frasi e a ciò che questa bellezza provoca in noi che l’ascoltiamo.

E d’altronde di cosa parlano le poesie della Gualtieri se non della nostra esistenza, labile e confusa, e dei tumulti che la squassano? Ci sono infatti in queste poesie la nascita e la morte, il dolore, il sesso, le voci della natura e degli animali; ci sono i giuramenti fatti da bambini, i giochi dell’infanzia, il desiderio irrefrenabile di libertà; ci sono la malattia di una sorella, il volto stanco di un padre, l’addio di un amante e i baci d’affetto, le notti nelle quali parlavamo piano perché nessuno ci sentisse, e le volte in cui ridevamo forte, fregandocene del mondo; c’è naturalmente anche il teatro, ma senza che la parola “teatro” sia quasi detta mai: “Sii dolce con me, sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano” dice infine Latini, per la prima volta guardandoci, e in queste parole di fraternità c’è (anche) la richiesta dell’attore al pubblico perché il pubblico comprenda che quest’arte misera, imperfetta e povera, è fatta dagli uomini per gli uomini, che si compone di poche cose, quasi niente (qualche verso, qualcuno che li dica, altri che li ascoltino) ma che questo niente, per un’ora, può diventare tutto.  

Poi –  mentre, proprio come a un concerto, qualcuno s’abbraccia per i brividi che ha provato, altri si tengono la mano mentre una ragazza, nella fila che ho davanti, poggia la testa sulla spalla del fidanzato  –  Latini indietreggia in ombra, tornando da dov’è venuto. Svanisce cioè definitivamente, sgranandosi con l’abbassarsi lento dei fari. L’ultimo taglio, di un bianco intenso, è per il leggio, per la poesia. Nel silenzio, approdo terminale del teatro, cominciano gli applausi.   

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2021/11/07/news/napoli_teatro_assoli-325443864/?rss

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