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Sergio Marra: “Teatro e comunicazione, il lavoro perfetto per me che ancora non c’era”

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Sergio Marra e il lavoro di addetto stampa. Dalla sua stanza al primo piano del Mercadante governa la comunicazione del Teatro nazionale e quest’ anno festeggia i quarant’anni di attività.

Seminascosto come chi vive dietro ogni spettacolo prodotto o ospitato, è il più richiesto tra i tanti che dedicano il loro lavoro alla comunicazione dello spettacolo.

Marra, quali richieste quando si avvicina una prima?

“Ognuno mi chiede di avere spazio, di essere presente negli articoli come protagonista, e invece i protagonisti in uno spettacolo sono solo due o tre, e i registi chiedono di essere presenti e visibili, come tutti gli altri che hanno costruito lo spettacolo. Si lavora senza tenere conto del tempo, si deve rispondere alle richieste dei giornalisti in qualsiasi momento”.

È possibile accontentare tutti?

“Non è mai possibile. Ogni attrice, ogni attore, per avere una prima pagina farebbe di tutto. Il narcisismo è un grande motore, e forse anche per me è importante avere il merito di un successo. Ma oggi so che tutti i gruppi o gli attori di cui mi sono occupato hanno avuto molta visibilità”.

(siano)

Da quando fa questo lavoro?

“Ho iniziato a curare uffici stampa nel 1982, per la rassegna “Zona d’osservazione”, era sindaco Maurizio Valenzi, c’era l’Estate a Napoli e tutto l’entusiasmo e l’energia che nemmeno più immaginiamo. Napoli era pronta ad accogliere nuove proposte, testi, artisti, spettacoli, musiche. Al Castel Sant’ Elmo c’era una rassegna di nuovo teatro, Luciana Libero, amica e giornalista, mi propose di curarne l’ufficio stampa, accettai senza nemmeno essere certo dei compiti da affrontare”.

Aveva già rapporti con il mondo dello spettacolo?

“Avevo lavorato al Teatro Nuovo come responsabile amministrativo, curavo i borderò, i biglietti, i rapporti con la Siae. E poi avevo annusato teatro in occasione della mia tesi di laurea sul teatro napoletano tra la fine degli anni ’60 e tutti gli anni ’70. Avevo conosciuto artisti che erano protagonisti in quegli anni: Renato Carpentieri, Mario Martone, Toni Servillo, Antonio Neiwiller, al teatro Nuovo avevo seguito le rassegne di cinema, Pasolini, Russel”.

(siano)

Ha provato anche a recitare?

“Ho avuto piccole ma intense esperienze come attore, roba da poco certo, ma per me importanti. Ti dà la possibilità di avere uno sguardo speciale, dall’interno”.

Dove recitava?

“Al Crasc di via Nilo, alla fine degli anni ’70, con Lucio Colle, per un laboratorio psicofisico, un paio di spettacoli, una rielaborazione della Madre di Witkiewicz che portammo in tournée, a Morcone. Ma era complicato, molto faticoso, capii che fare l’attore non era il mio lavoro. Ero iscritto a Giurisprudenza, per la famiglia dovevo diventare avvocato ma un pomeriggio una mia amica mi portò a un incontro lezione di Alberto Abruzzese su Braudillard, ne fui affascinato, cambiai facoltà di nascosto”.

Come la presero i suoi?

“Non ne ebbi mai il coraggio di dirlo a mio padre. Venne il momento della seduta di laurea, c’era stato il terremoto e eravamo ospiti nel salone della Rai a via Marconi. Per me fu un incubo, la famiglia vestita elegante, le donne erano andate dal parrucchiere, mio padre stava seduto dietro di me e mi ascoltava”.

Di cosa parlava?

“Discussi la mia tesi su “Il teatro napoletano dall’antropologia all’impegno politico”. Ebbi 110 e lode e tutti erano felici. Ma mio padre aveva una faccia strana”.

E poi?
“Successe che andammo tutti al ristorante, mio padre stava in silenzio, poi a un certo punto si alzò in piedi e mi chiese che c’entrava l’argomento della mia tesi con il mio futuro di avvocato. Rimasi di ghiaccio e in un attimo risposi che quattro anni prima gli avevo detto che stavo per cambiare facoltà. “Ti sei rincoglionito e non te ne ricordi” dissi, lui mi guardò e non rispose. E per un anno non mi ha più rivolto la parola”.

Troppo lontano dal mondo dello spettacolo?

“Eppure eravamo sei fratelli, gli zii lavoravano a Cinecittà, mio padre ha fatto la comparsa in Ben Hur, mio zio Attilio faceva lo stuntman, ma il lavoro per lui era un’altra cosa e io non gli avevo mai parlato di questa mia passione”.

Però poi la ha perdonato.

“Quando incominciai a lavorare e potei dire che guadagnavo 200 mila lire al mese. Sul mio comodino, il giorno dopo trovai un libro sulla storia del giornalismo. Aveva capito che avevo scelto il mio lavoro e mi aveva perdonato. Ero io che non avevo mai capito che mio padre era un uomo serio e civile, meraviglioso”.

Cosa fece allora?

“Io volevo andare via da Cancello Arnone, volevo emanciparmi, non volevo aspettare, volevo realizzare qualcosa, venni a Napoli, dovevo riuscire a guadagnare per vivere e non volevo chiedere alla famiglia. Mi mantenevo cercando piccoli lavori, dipingevo vetri con i disegni a piombo e li vendevo sul marciapiedi del Banco di Napoli a via Toledo. Una mia amica molto cara, Annamaria Palermo, mi aiutò a venderli anche alle sue amiche ricche di Posillipo. E intanto incominciai a lavorare al Teatro Nuovo”.

Ma quando giunse l’occasione di “Zona d’osservazione”…

“Capii che era il lavoro perfetto per me. Ero giovane, intraprendente, mi piaceva parlare, raccontare degli spettacoli, di chi era in scena, di come erano fatti. Capivo che sapevo essere convincente e riuscivo ad avere attenzione e quindi spazio sulle pagine dei giornali. Ho inventato il mio lavoro, a Napoli non esisteva, c’erano in Italia pochi mitici professionisti, Giovanni Soresi a Milano, Dino Trappetti a Roma, figure mitiche”.

È molto cambiato il modo di lavorare da allora?

“Allora avevo una macchina da scrivere con i fogli di velina e la carta copiativa, tre per volta, battere e ribattere, correzioni con il bianchetto, buste da riempire, andare in giro col motorino e lasciare le buste alle redazioni: Roma, Il Mattino, Paese Sera, poi arrivò il fax e mi sembrò un sogno, oggi ci sono i computer”.

Ha stretto amicizie nel mondo del teatro?

“C’erano gruppi di critici militanti, in scena c’erano artisti come Scaparro, Cecchi, ma anche Luisa Conte e Nino Taranto, differenze poetiche molto forti, con alcuni si creò un rapporto di scambio, di affetto Vitiello, Taiuti, Moscato, Martone, se ci veniva una idea ce la dicevamo i ruoli erano precisi ma si parlava e ci si aiutava”.

Predilezioni ne avrà avute.

“Certamente, un rapporto come quello con Annibale Ruccello o Mario Martone, erano anche incontri di carattere. Con Mario Martone è stato importante, con Toni Servillo una consacrazione. Mi chiamarono per “Rasoi”, fui Teatri Uniti per dieci anni”.

Litigi invece?

“Non con loro, ma qualche volta ce ne sono stati. Poi, dopo un po’ di tempo, tutto si risolve. Il teatro vince sempre se ci sono gli applausi”.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2022/12/18/news/sergio_marra_teatro_e_comunicazione_il_lavoro_perfetto_per_me_che_ancora_non_cera-379709074/?rss

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