

Un tempo, tra un piano e l’altro, tra le case storte e sovrapposte della città, si tendevano fili – visibili e invisibili – che cucivano insieme le giornate. Non erano solo per i panni, sopra ci passavano le parole, e gli affetti: un gesto con la mano, un uovo chiesto in fretta, un silenzio buono. Bastava affacciarsi, e qualcosa succedeva, un saluto, una domanda, una risata che passava da una finestra all’altra al pari dello scirocco d’estate.
Dai balconi sventolavano lenzuola larghe, camicie stanche, mutande come bandiere di una vita comune. Ogni stoffa era una confessione domestica; le tovaglie con le macchie di sugo, i grembiuli scoloriti, i pigiami sformati raccontavano storie semplici, vere, condivise senza vergogna.
C’era chi parlava con la voce piena, chi con lo sguardo, e chi lasciava scorrere il giorno tra le mollette e l’odore del ragù. Le voci si incrociavano, si chiamavano per nome, si davano il buongiorno senza pensarci, si tenevano compagnia da un lato all’altro del cortile. Anche il silenzio aveva una presenza: si sapeva che c’era qualcuno, anche senza parlare.
Ogni balcone era una soglia viva, una scena aperta, una sedia con qualcuno seduto, una radio accesa, una pianta in fiore. C’erano sedute lunghe, panni spostati per far passare la luce, chi raccontava il tempo, chi guardava senza fare niente. Le case non finivano dentro i muri: continuavano fuori, nell’aria condivisa.
Ora li guardo, quei balconi, anche i più belli, con i loro ferri battuti, i marmi scolpiti, le cornici fiorite. E non ci trovo più nessuno. Solo sedie vuote, piante secche, oggetti dimenticati; nessun filo che unisca, nessuna voce che viaggi nell’aria. I balconi sono diventati confini. Ogni casa respira da sola, protetta da tende spesse, chiusa dietro persiane socchiuse.
Ma io me li ricordo, quei fili: un grembiule che sventola, una voce che chiama, un lenzuolo che danza. E sento qualcosa di piccolo e nostalgico che si muove nel petto, un filo rimasto attaccato tra me e quello che eravamo.
Ma forse non è nostalgia, è memoria. È un modo di ricordare, di dire, di dirsi, che si può ancora tenere insieme la vita degli altri alla propria, basta lasciarle spazio, basta tendere un filo.


