

È successo in un giorno qualunque di dicembre, uno di quelli in cui il Natale è già ovunque, ma non è ancora da nessuna parte. Le luci accese troppo presto lungo le strade, le vetrine perfette, la gente di corsa. Un’atmosfera ordinata, efficiente, leggermente nervosa. Come se la città stesse facendo il possibile per non fermarsi a pensare.
Sul bus nessuno parlava davvero con qualcuno. Una donna discuteva al telefono di scadenze e bollette, senza abbassare la voce. Un uomo fissava lo schermo spento del cellulare. Due ragazzi ridevano, ma senza gioia, come per riempire un vuoto. All’altezza di una fermata affollata, tra clacson e motorini che scivolavano ai lati, è salito un vecchio. Non chiedeva nulla. È rimasto in piedi, in equilibrio incerto, con un cappotto troppo leggero per dicembre e uno sguardo che non cercava attenzione. Qualcuno ha distolto gli occhi. Qualcun altro ha stretto la borsa. Il bus è ripartito, inghiottito dal traffico. Tutto normale. È in momenti così che il Natale, se ha ancora un senso, smette di essere una festa e diventa una domanda. Non entra dalle chiese, ma dai mezzi pubblici, dalle corsie degli ospedali, dalle cucine dove si apparecchia senza sapere bene perché. Arriva mentre il mondo fa altro. E per questo disturba. Viviamo in un tempo che non ha tempo. Tutto è urgente, nulla è essenziale.
Funzioniamo bene: produciamo, consumiamo, ci difendiamo. Abbiamo imparato a evitare gli inciampi, a ridurre i rischi, a chiamare equilibrio ciò che spesso è solo stanchezza ben amministrata. Andiamo avanti. Ma avanti verso cosa? Il vecchio è sceso poche fermate dopo. Nessuno lo ha seguito con lo sguardo. Il bus ha continuato la sua corsa, tra semafori e frenate improvvise. Anche noi continuiamo la nostra, ogni giorno, con la stessa disciplina. Lavorare, competere, proteggersi. È una vita ordinata. Ma a volte viene il sospetto che non sia una vita riuscita. E resta addosso una sensazione difficile da scrollarsi di dosso, come quando si perde qualcosa senza sapere esattamente cosa. Non il rimorso, non il senso di colpa. Piuttosto una domanda rimasta sospesa, non detta, che continua a lavorare sotto pelle. Forse non era il vecchio a essere fuori posto su quel bus. Forse lo siamo noi, quando attraversiamo le giornate senza mai davvero incontrare nessuno, senza lasciare che una presenza imprevista incrini il nostro equilibrio. Ci diciamo che non era il momento, che avevamo fretta, che non toccava a noi.
E intanto impariamo, giorno dopo giorno, l’arte sottile dell’indifferenza educata. Il Natale, preso sul serio, non aggiunge nulla. Toglie. Toglie le scuse, le frasi fatte, l’idea che basti cavarsela. Mette in crisi l’equazione dominante: io al centro, il resto dopo. Dice, senza alzare la voce, che una felicità costruita contro gli altri non regge a lungo. Che il benessere non è una prova di senso. Che la vita non si misura solo in ciò che si possiede, ma in ciò che si è disposti a perdere. C’è un antico racconto che attraversa la nostra cultura come una scheggia. Un uomo, ben inserito, rispettabile, in regola con tutto, si ferma e chiede al Maestro come si fa a vivere davvero. Non gli viene rimproverato nulla. Nessuna colpa, nessuna trasgressione. Gli viene detto solo questo: guarda cosa trattieni, guarda cosa ti dà sicurezza, guarda dove finisce il tuo sguardo. Perché a volte ciò che manca non è qualcosa da aggiungere, ma qualcosa da lasciare andare. Non per eroismo, ma per libertà. Non per diventare migliori, ma per diventare veri. Non serve essere credenti per sentire il peso di questa domanda. Basta riconoscere che abbiamo imparato a gestire il dolore, ma non a generare gioia. A controllare le ferite, ma non a cambiare direzione. A sopravvivere con intelligenza, rinunciando però a vivere con coraggio.
Forse il Natale serve ancora a questo: a ricordarci che una vita chiusa, anche se ben organizzata, resta incompiuta. Che non tutto ciò che è legale è giusto. Che non tutto ciò che funziona è umano. Quando siamo scesi dal bus, la città era identica. Le luci le stesse. Il traffico uguale. Tutto continuava come prima. Ma il Natale, se è qualcosa, è proprio questo: una domanda che non ferma il mondo, ma lo giudica in silenzio. E allora la provocazione resta, scomoda e inevitabile: se continuassimo a vivere esattamente così, senza cambiare nulla, saremmo davvero disposti a chiamarla felicità?


