

Senza un salto nell’intelligenza artificiale, l’Europa rischia di uscire dalla storia economica del mondo». Con questa frase, Draghi mette a nudo la condizione attuale. L’IA non è un settore, è la struttura portante del nuovo ciclo di potere economico. Chi la governa non solo innova, ma stabilisce le regole della competizione globale. Chi si attarda, invece, non perde semplicemente velocità. Perde voce, margine, rilevanza.
È la differenza che segna il confine tra chi produce tecnologia e chi la subisce, tra chi definisce le architetture del mondo digitale e chi resta vincolato alle scelte altrui. L’Italia si trova in una posizione ancor più delicata, perché alle sue fragilità tecnologiche aggiunge una fragilità istituzionale che rischia di amplificare ogni preesistente divario territoriale. Il paradosso è evidente. Nel momento in cui servirebbe una strategia nazionale integrata fatta di investimenti centralizzati, interoperabilità dei dati, infrastrutture condivise e capacità regolatoria unitaria, il governo Meloni punta su un assetto che procede nella direzione opposta.
L’Autonomia differenziata non solo non risponde alle esigenze dell’innovazione ma le contraddice strutturalmente. L’IA richiede massa critica, continuità amministrativa, standard uniformi, procedure omogenee. La frammentazione istituzionale, al contrario, crea molteplici modelli di servizio pubblico, svariati sistemi decisionali, plurimi livelli di responsabilità. È un approccio che rende più difficile qualunque politica industriale avanzata e che rischia, nella pratica, di trasformare la rivoluzione digitale in una mappa a macchie di leopardo, dove il luogo di nascita determina il grado di accesso all’innovazione. Draghi ricorda che senza tecnologia si perde la possibilità di «definire standard, regole, filiere». È il cuore del problema.
L’Italia non solo rischia di non partecipare alla produzione dell’IA, ma anche di non avere la forza istituzionale per applicarla in modo sistemico. La trasformazione digitale non è solo questione di software o algoritmi, è governance, capacità di coordinamento, potere di regia.
E qui il Mezzogiorno mostra più chiaramente di altri la fragilità dell’intero Paese. Qui la debolezza dell’innovazione non è un limite marginale, ma un vincolo strutturale. Basse produttività, amministrazioni con scarso capitale tecnico, filiere incomplete, una minore densità di imprese tecnologiche. Invece, il Sud potrebbe guadagnare più di qualunque altra parte d’Italia dall’adozione dell’intelligenza artificiale: miglioramento dei servizi pubblici, riduzione delle asimmetrie informative, pianificazione predittiva, gestione efficiente delle risorse, rafforzamento delle catene del valore. Perché l’IA è una tecnologia che premia chi ha più da recuperare. Ma proprio per questo richiede una cornice unitaria. Senza coordinamento nazionale, le opportunità diventano frammenti. Senza investimenti centralizzati, le sperimentazioni restano episodi. Senza una strategia comune, l’innovazione non si diffonde, si arena. Le università del Mezzogiorno stanno facendo passi avanti importanti nella ricerca applicata, i centri di competenza si rafforzano, sanità, beni culturali e mobilità sperimentano applicazioni dell’IA. Ma nessuno di questi processi può assumere una scala sufficiente senza un’infrastruttura istituzionale coerente. Non basta avere eccellenze locali se il sistema nazionale non è in grado di recepire, replicare e moltiplicare ciò che funziona. Il Paese non può affidare il cuore della propria competitività a iniziative isolate. L’economia della conoscenza, per funzionare, ha bisogno di architetture che tengano insieme, non che separino.
L’Autonomia differenziata non è solo una questione di perequazione o di risorse. È un errore di progettazione istituzionale rispetto alle esigenze dell’IA. Divide ciò che la tecnologia pretende unificato. Moltiplica i punti di decisione dove sarebbe necessario concentrarli. Genera complessità dove servirebbe linearità. Non è un dibattito astratto ma il modo in cui si decide se l’Italia potrà ancora esercitare un ruolo nella definizione di politiche di rinnovamento. Escludere il Sud dall’innovazione non significa solo rallentare una parte del Paese, significa sottrarre all’Italia la possibilità di trasformare la modernizzazione in coesione, e quindi in forza reale.
Il Mezzogiorno non è un ritardo da colmare, ma uno dei punti in cui la politica rivela ciò che non dice. Escluderlo dall’IA non produce un baratro, ma un’ombra. E spesso sono le ombre, più della luce, a rivelare la direzione cui una nazione sta rinunciando.


