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James Senese, musica nera e napoletana

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La musica dei Napoli Centrale apre la strada a un’intera generazione. Forse uno dei rimpianti più grandi dei miei anni è sapere di non far parte di quella generazione. Non ho l’ironia e la prontezza di chi afferra al volo la provocazione dietro la domanda “A te piace ‘a musica o ‘o fummo?”.

Napoli era una città attraversata da contraddizioni forti: povertà, emigrazione, disoccupazione, ma che riusciva a farsi strada grazie a un forte fermento artistico e politico. Lo sento nel fuoco che si accende nel petto di chi mi racconta delle occupazioni universitarie degli anni ’80, degli scudetti di Maradona, di Piazza Bellini presa d’assalto dagli scooteristi di opposte fazioni politiche. E come reazione al terremoto, alle guerre di camorra, ai conflitti e alla politica corrotta, in quei momenti di crisi c’è sempre stata la fioritura della canzone napoletana. I musicisti— molti dei quali provenienti da quartieri popolari — ascoltavano jazz, rock e soul provenienti d’oltreoceano, pur vivendo immersi in tutte le sfumature del dialetto. Poi questi mondi si sono incontrati, e non si è trattato di un semplice scambio musicale, ma di un radicamento profondo: i napoletani si rivedono nella musica nera, nelle storie di emarginazione e riscatto. Quelle sonorità che nascevano nei quartieri degli americani neri sembravano parlare anche delle periferie di Napoli, del lavoro precario, dell’orgoglio di chi vive ai margini ed è costretto a farsi spazio tra l’acqua sporca e gli schiaffi. Dal jazz prendono l’improvvisazione, dal soul la tensione emotiva, dal blues il dolore — e li intrecciano con il ritmo del dialetto e la teatralità. Nasce una musica capace di essere al tempo stesso locale e sorprendentemente universale: una musica che suona nera e napoletana.

Essere neri e napoletani sono cose che non si possono spiegare, solo cantare.

La presenza visibile del corpo nero a Napoli ha radici concrete: dall’arrivo degli afroamericani durante e dopo la Seconda guerra mondiale c’è stata una lenta penetrazione dei linguaggi neri nella vita musicale della città, anche se le immagini del soldato nero nella memoria italiana e napoletana aiutano a capire come quell’incontro abbia lasciato tracce culturali molto profonde. Oltre alle brutture e alla violenza della guerra, o alle difficoltà che anche la liberazione ha portato con sé, proviamo a pensare come Napoli ha fatto delle contaminazioni la sua forza: il jazz entrò nei locali e nelle radio, il blues e il soul circolarono attraverso dischi, e quei linguaggi trovarono terreno fertile nel dialetto, nella tradizione melodica e nelle pulsioni popolari cittadine.

Il groove e la ritmica nera si trasformarono in un’operazione di riconoscimento, una pulsione musicale e identitaria che non poteva essere più ignorata – come una pandemia stava mangiando l’intera città, stava nutrendo una generazione, stava facendo nascere l’ammore con due “m”. Oggi, forse, sottovalutiamo la potenza di quella storia, di quei nomi, di quel movimento chiamato Neapolitan Power.

In questo mosaico entra James Senese: nato a Napoli nel 1945 da madre napoletana di Miano e padre soldato afro-americano. Il suo sassofono — spesso ruvido, umano — è diventato simbolo di una Napoli che si racconta senza edulcorare i propri dolori. Non solo, era anche il simbolo della possibilità di prendersi una voce nuova: un corpo nero che suona, parla e canta napoletano ha sfidato stereotipi e ha ampliato lo spettro di ciò che la città poteva essere: crocevia di mondi sonori, una forza senza eguali, una bocca dai denti affilati pronta a mordere la vita pezzo per pezzo. Senese, con la sua storia personale e la sua musica, incarna quella trasformazione: la musica nera a Napoli si trasformò in strumento di rappresentanza sociale.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2025/11/01/news/james_senese_musica_nera_e_napoletana-424952969/?rss

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