

Ci sono film che non arrivano a sirene spiegate ma con un colpo secco al cuore. Film che ti fanno sentire il profumo della vita quando decide di rallentare e guardarti negli occhi. “Le città di pianura” è così. È piccolo ma contiene un mondo intero, fatto di strade dritte che sembrano senza uscita e di esistenze che cercano ancora un varco. In questa pianura di rotonde tutte uguali, lampioni che tremano al vento e bar che resistono come ultime trincee sociali, si muovono uomini che hanno perso l’innocenza ma non del tutto la speranza. La loro età non è più quella dell’inizio, però ogni bevuta è una promessa, anche sgangherata, che qualcosa potrebbe ancora succedere. L’affetto che l’autore ha per i suoi personaggi è contagioso. Li guarda con ironia e tenerezza, senza mai giudicarli. Ne coglie la fragilità, ma anche la voglia quasi ostinata di non arrendersi. È un cinema che parte dal basso, da un tavolo appiccicoso di birra, da un sorriso un po’ storto, da un passo fuori tempo.
E proprio lì trova poesia. C’è un ragazzo, nel film, che studia architettura. È lui a rappresentare il ponte verso un domani possibile. Lui ascolta, assorbe, impara, sorride. La sua timidezza è uno spiraglio. “Le città di pianura” sta crescendo senza marketing aggressivo, senza star da copertina. Sta crescendo perché chi lo vede lo racconta, ne parla uscendo dal cinema, lo consiglia agli amici, ne posta una frase.
E lentamente il film trova il pubblico che gli appartiene. In un tempo dominato dall’urgenza e dalla sovrapproduzione, questo passaparola è un segnale confortante: quando un film tocca corde vere, le persone lo difendono, lo abbracciano, lo diffondono. La comunità si ricrea attorno allo sguardo condiviso. Questo successo lento e capillare è la dimostrazione che gli spettatori riconoscono la vita vera quando la vedono sullo schermo.
La riconoscono nei bar di periferia, nelle amicizie stortarelle, negli errori che non ridono di noi ma con noi. Così il film si espande come una voce controcorrente, autentica e per questo irresistibile. Perché la pianura che ci mostra Sossai non è piatta. Respira. Ha ferite e scintille. Ci somiglia, tra un ultimo bicchiere e un primo passo fuori dal buio.


