
Drammatizza e souleggia ogni frase, Nick Cave. Si alza dallo sgabello del pianoforte a coda e aizza la platea dell’anfiteatro degli scavi di Pompei enunciando: “Questa canzone è lunghissima. Non abbiate panico. È solo la prima dello show. Se volete, intanto che suono andate al bar o in bagno. E tornate in tempo per il resto del concerto. È “Higgs Boson Blues. Pompei!!””. Pronuncerà, divertito, provocatore e comedian, almeno una ventina di volte il nome della città vesuviana, felice d’aver compiuto la sua commovente e esilarante missione al “Beats of Pompei”.
Un set pianoforte-voce, quasi sempre con il supporto di Colin Greenwood dei Radiohead al basso (discreto e quindi propositivo specie nei bis, dove si libera realmente e fa brillare il suo estro), che diventa già memorabile. Perché il poeta/rocker australiano, look à la Blues Brothers, ha deciso che stanotte vuole insufflare emozioni e reazioni radicali: pathos, dolore, abbandono, rivelazione, morte, violenza, amore. Vuole librarsi in ogni cellula e slaccia subito la cravatta: “It’s fucking hot!” (fa troppo caldo).
Fluttuante, canta per i figli “una dark song” (“O Children”), canta per i suoi figli, e per sua moglie Susie quando si addormenta (“Galleon Ship”, con sequenze di coro dal mixer), e per suo padre (“Man In the Moon”). E canta per un’audience pronta a diventare protagonista su suo invito: “Tutti voi che siete in gradinata siate pronti. Quando pronuncio ‘balcony’ urlate da pazzi come se foste dinnanzi ai gladiatori”. Start, “Balcony Man”, e il pubblico impazzisce di strilli e ola. E a chi lo implora di fare altrettanto con chi sta seduto in platea ribatte malandrino con un’istantanea parolaccia. Risate collettive.
E ti accorgi che in sala ci sono fanciulle di Teramo, comitive di Bergamo, siciliani, pugliesi. Accenti venuti apposta in Campania da ogni parte del mondo per vivere una notte rock tra le rovine e il perdono. Cave disossa, spolpa, squarta ogni rima, nel suo canto cavernoso. Osa in falsetto quand’è ora di intonare “Cinnamon Horses” e evoca Jelly Roll Morton e Jerry Lee Lewis per la mirabile “The Weeping Song”. “Girl In Amber”, “I Need You” (divino il finale nella reiterazione salmodiata “Just breathe” a perdifiato), “Skeleton Tree” (incisa per l’omonimo album con i Bad Seeds mentre dieci anni fa moriva suo figlio Arthur, 15enne; nel 2022 purtroppo ne ha perso un altro, Jethro) avvicinano gradualmente a “Jubilee Street” e “Push the Sky Away”, quando tutti i fan si alzano dalle sedie e lo raggiungono sotto palco per cantare in coro.
Lui è estasiato: “Fuck, awesome” (Cazzo, siete magnifici). Senza perdere lo spirito post-punk degli esordi con The Birthday Party – al compianto chitarrista Rowland S. Howard dedica “Shivers” – ogni tanto sputa sul palco, sorseggia da un bicchiere la sua amata miscela e incanta la platea, in uno scenario prezioso magari illuminato in maniera non adeguata. Celebra la grazia creativa di Leonard Cohen e Marc Bolan proponendo riletture di “Avalanche” (“è la prima canzone sua che ho ascoltato”), e “Cosmic Dancer” (“a lui che ha inventato un linguaggio”). Offre il gospel di “More News from Nowhere” e l’irrinunciabile “Love Letter”.
Con i testi sul pianoforte, ammette la necessità di “leggerli perché sono canzoni vecchie” e scambia buffe e ripetute dediche amorose con i fan. Perché per vivere un concerto di Nick Cave bisogna essere disposti a perdere un po’ – o tantissimo – di se stessi. E infine a ricomporsi. È accaduto anche stavolta. E di più. Tra le rovine ci si sente sopravvissuti del rock e della poesia. Con lui, angelo custode e interprete della pena e del peccato, della perdita e della redenzione. L’addio nella notte che aspetta la luna è “Into My Arms”, nelle mie braccia. Addio Cave.
Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2025/07/20/news/nick_cave_concerto_rock_pompei-424742401/?rss