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Savinio, le tre carte napoletane di Leopardi

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Il libro di Alberto Savinio, “Leopardi. Tre carte napoletane”, curato da Alessio Bottone e Silvio Perrella, ed edito da Spartaco è stato oggetto di una relazione di Perrella al convegno internazionale dedicato alle “Operette morali”, svoltosi nel Centro di studi leopardiani di Recanati dal 22 al 25 ottobre. La pubblichiamo di seguito.

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Alberto Savinio divaga, circuisce l’argomento, lo sposta di lato, ed è già altrove; ma in un altrove che sta proprio nel punto in cui bisogna stare: accanto a Giacomo Leopardi. Di Leopardi, lo scrutatore mercuriale, s’impadronisce di un dettaglio che riguarda il suo principale peccato di gola. Lo dice a chiare lettere: Leopardi è un mangiatore seriale di sorbetti, proprio così. Indubitabilmente. Ne deriva che spinto dalla possibile felicità gustativa l’infelice poeta svaga i piedi; discende Santa Teresa degli Scalzi, a Napoli, e la pendenza a favore della strada lo fa leggero; lo fa simile a un Sisifo che va nel giù a recuperare il masso; le mani libere e il passo fatto svelto dall’inclinazione – potrebbe chiosare Camus – lo spingono a un temporanea felicità.

Leopardi-Sisifo viene pedinato da Savinio; non è che il detective sia del tutto liberale ed accogliente. Anzi, è inutile negare che a lui chi mangia i gelati dà un po’ sui nervi; però per quell’essere divoratore di sorbetti prova una simpatia che fa pensare all’etimologia greca; sta con lui e le sue parole; se ne fa degustatore, come se Leopardi fosse in grado di fornirgli quell’alimento che in molti altri scrittori non riesce a trovare. A Savinio Leopardi fa simpatia perché orchestra una musica di pensieri ben levigati nella mente, tali da non morire d’inedia una volta costretti nel ristretto spazio della frase. Il fantasma del Contino – un Giacomo con “la fronte a baule e l’occhio infossato”, vestito di un frachettino le cui spallucce “gli salivano fin sopra le orecchie” -, si scioglie nell’aria divenendo il vero e sopraffino nutrimento della prosa di Alberto Savinio.

Leopardi fa famiglia con i “grandi infelici dell’intelligenza”; ma si capisce che presto, dopo aver abbandonato “il passo ansioso delle Carte napoletane”, è prossimo a diventare come colui “che se ne va cantando e camminando lungo la riva del mare”, e adesso “l’occhio corvino sotto la fronte a balconata”, diventa ceruleo come in quadro-ritratto di Domenico Morelli. Quel giorno una “luna anacreontica” sarà alta in cielo e la sua luce non sarà affatto “un mite chiarore sparso sulla natura”, bensì “una gelida luce irta di rilievi, un giorno capovolto, una chiarità d’acciaio che rivela ciò che il giorno non può rivelare”. In questo giorno capovolto, Savinio leva di dosso al suo Leopardi i mantelli carcerari che gli hanno incurvato le spalle e lo lascia libero non solo di godersi i suoi sorbetti, anche se gli daranno quella “cacarella” impronunciabile che invece lui pronuncia; lo lascia libero soprattutto di far uso d’ironia come mezzo di ricerca; lo ascolta mentre compone la sua musica, che sembra suonata “solo sui tasti neri”, così intenta a diffidare del vocalismo e così fraterna al “legato” chopiniano; in massimo grado lo Chopin del Preludio opera 45; dunque quello di un’opera che se sta in disparte in attesa di uditi ultrasonici. Nelle parole di Savinio quello che credevano sino allora il catafratto poeta di Recanati, si trasforma in un drammaturgo in fieri, in un “suggeritore di misteri”.

Nelle Operette morali ogni “parola fa spettacolo”; “ciascuna parola dei Dialoghi è un pertugio attraverso il quale il nostro ‘terzo occhio’ si dilunga e spazia sui panorami dei sogni: dei sogni vivi e coscienti”. Basta solo che quella parola, da intendersi “in un altro modo”, la si esegua mentalmente, nello spazio abissale e solitario del silenzio; e allora ecco incontrare “uno sguardo di desiderio amarissimo, uno sguardo di là dei confini; quell’aspirazione all’oriente e al meridione, all’occidente e al settentrione” che spinge noi lettori dell’adesso a compararlo allo sguardo del Goethe del Divano Occidentale Orientale. Quello di Leopardi è un “Teatro riposto, silenzioso, pudico – e alto”. E torniamo a Napoli, alla Carte napoletane di Leopardi, al suo girovagare per una città antica e avvolta nelle ombre fantasmatiche del passato, dove “la vita dà fuori con furia come l’acqua di selz dal sifone”. È uno di quei pomeriggi in cui si commercia con le ombre: “Lunghe le ombre, e il sole passa tra le gambe degli uomini”. Uscito dalla sua abitazione di talpa, Leopardi scende a passo lieve lungo Santa Teresa degli Scalzi: “Passava per Toledo. Costeggiava le botteghe vociose e parate come teatrini. Sfiorava le donne calde e assieme fresche o soprattutto odorose: lui che le donne non sapeva altrimenti amare se non con gli occhi e la fantasia; e la sua gioia era accresciuta dal camminare in discesa, perché il sentimento di facilità, di distacco dalla terra, di volo che dà il camminare in discesa, supera la felicità del cavallerizzo, e del ciclista che scende una china a ruota libera, e dell’automobilista che corre un’autostrada”. Leopardi vola come abitasse in un dipinto di Chagall.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2025/10/25/news/savinio_le_tre_carte_napoletane_di_leopardi-424937174/?rss

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