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A chi figli e a chi figliastri

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Forse c’è anche chi ricorda tutto il film drammatico del 1986 diretto da Randa Haines e interpretato da William Hurt e Marlee Matlin: tutto il film, intendo, non solo il titolo. Il titolo è indimenticabile, fa ricordo a sé. Descrive una vera e propria categoria sociale: i “Figli di un Dio minore”, nel film rappresentati da Sarah Norman, una donna sorda che fa le pulizie nella scuola che ha frequentato e che rifiuta di adattarsi al modo di comunicare dei cosiddetti normodotati.

Si ostina a parlare con il linguaggio dei segni: nella relazione con James Leeds, docente nella stessa scuola, non vuole accettare di comunicare nel modo di chi ci sente. Perché sa bene che, quando sceglierà l’espressione che non le appartiene, perderà armonia, diventerà go?a, spezzerà la magia del suo silenzio. Non sarà più lei. Proteggere l’interezza di sé ha un prezzo da pagare, spesso esoso; il privilegio di non fare gregge, di non trasformarsi in quello che gli altri vogliono da noi è una scelta faticosa.

Dalle nostre parti c’è un termine preciso che descrive gli esclusi dai poteri dominanti, dalle correnti giuste: i figliastri. La cultura napoletana con il detto “a chi figli e a chi figliastri” si riferisce alle valutazioni ingiuste, alla nutrita repubblica degli scarti molto spesso formata da chi non obbedisce ai voleri dei cosiddetti normodotati.

Che poi i normodotati in questione spesso sono quelli che vanno a braccetto con chi deride le minoranze bislacche, difettose, che sulla via continuano a zoppicare pur di non perdersi.

Invece c’è grande bisogno di figli delle divinità minori, dei figliastri. Quasi sempre sono quelli che rivelano alla comunità che il re è nudo, che il conflitto di interesse del potere non è mai stato debellato, che un dettaglio come il senso non può essere ammaestrato da nessuna comunicazione che non gli somigli. I figliastri sono pacifici, ma non lo possono dire. Ci manca solo questo! Pare che se si dichiarano i pacifici diano autorizzazione a

procedere contro la fragilità.

Sempre per restare nei modi di dire delle nostre parti, i figliastri sono per forza di cose soligni: ai figliastri non conviene essere figliastri, quindi il numero non può essere tanto alto nel mondo del fai solo ciò che ti conviene.

I figliastri inciampano, sono i pendolari che restano bloccati nei treni,

perdono il lavoro a cinquant’anni, non hanno amici che li vengono a salvare.

In genere sono loro a contrabbandare salvezza e lo fanno come se fosse un gioco. Sono le persone che si lasciano imbrogliare con una malinconia consapevole, la stessa che i migliori traducono in canzone. Sono difettosi, non hanno le carte della vita in regola, i figliastri si vergognano di abbracciare certezze contraddittorie, che si scontrano come i trenini sulle piste montate male. Se solo riuscissero ad avere voce, la loro voce non quella imposta dal megafono di turno, i figliastri potrebbero piantarla di stare sempre in fondo alla stanza.

I figliastri sono i penultimi, perché almeno gli ultimi hanno il benedetto primato che gli sfugge sempre.

Alcuni artisti ne sanno fare personaggi dolenti, occhi da sprofondo, musica e musica, consapevole ironia e felicità consumata. Non sono mai ru?ani, i figliastri, quando si accontentano di un poco di sole sono il capolavoro dell’esistenza. Peccato che nessuno li veda.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2025/10/03/news/a_chi_figli_e_a_chi_figliastri-424888501/?rss

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