
Le radici del nostro Sud sono profonde e a volte invisibili. Sulla strada verso Cosenza, accanto alla magnifica Certosa di Padula, il Battistero di San Giovanni in Fonte è una meta poco nota. In autostrada, poi, è segnalata per chi viene da Reggio e non per chi viene da Napoli.
Nella campagna fra Sala Consilina e Padula, il Battistero nasconde segreti remoti: i resti, gli archi, il sacello, sorgono su una fonte gorgogliante che si allarga in polla sotto l’edificio e scorre nei prati circostanti. L’acqua è tersa, trasparente, ogni sasso colorato, ogni alga, ogni erba si muove con l’incanto di un quadro preraffaellita.
Qui galleggia da sempre l’Ofelia di Millais o potrebbero nuotare le carpe koi di certi sacri giardini giapponesi. E infatti la quasi divelta cartellonistica narra che questa fonte era sacra alla ninfa Leucothea. Le prime notizie risalgono al 527 d.C.: in una lettera di Cassiodoro al re Alarico si narra del prodigio della fonte: in queste acque si praticava, infatti, il battesimo per immersione, evento unico in Europa. I catecumeni adulti, immersi per intero nelle acque della fonte, ne emergevano emendati d’ogni peccato e per di più, scrive Cassiodoro, il livello dell’acqua saliva visibilmente, per poi ridiscendere al termine della cerimonia.
La fonte doveva essere ben nota per queste sue specialissime qualità: anche qui dovevano esserci tributi ed ex voto pagani come a San Cassiano, in Toscana, i cui preziosi reperti sono stati di recente esposti prima al Mann e dopo al museo archeologico di Reggio Calabria. Mentre sostiamo, silenziosi, nello spazio meditativo – gorgoglii, vento, ronzio d’insetti: la primavera arriva – ragni d’acqua galleggiano pacifici a pelo d’acqua e un grande gatto nero passa e ci spia.
Il Battistero fa parte di quella triangolazione della memoria che lega le basiliche di Cimitile alla chiesa di Sant’Angelo in Formis: qui, lungo la via Popilia, i dimenticati, gli dei esclusi dal monoteismo, sono ancora presenti. E adesso che il Battistero è solo un bellissimo rudere, la natura ha ripreso il governo del mistero.
Più tardi, arrivati a Cosenza, sembra di nuovo di fare un salto nel tempo: il magnifico centro storico abbandonato da decenni, pare la domenica come un paese fantasmatico.
Magnifici e abbandonati sono i palazzi, bellissima la Cattedrale e l’ancor più bella San Domenico, gotica e barocca insieme. In un edificio carico di tracce tardogotiche, con un bellissimo cortile quattrocentesco che d’estate ospita eventi, è poi il Museo dei Bruttii e degli Enotri, miracolo espositivo in dialogo con Sibari, Crotone e Reggio.
L’incanto maggiore è nella sepoltura di una coppia da cui emergono i gioielli di lei, un anello da pollice (che ogni ragazza oggi indosserebbe volentieri), una spada con fodero, una cintura di bronzo.
Una simulazione virtuale mostra i tempi della tomba, dalla sepoltura al ritrovamento: stagioni e secoli passano e, in un attimo, fra le conchiglie lamarckiane della preistoria calabrese e un capitello ionico, che evoca la Magna Grecia dei giochi e dei simposi, un segreto è trascorso.
Non parrà strano al visitatore, allora, incontrare al piano di sopra i ceppi di ferro dei prigionieri politici borbonici e la notizia, consueta, che il potere organizza epidemie a scopo di controllo, come si disse a Cosenza nel 1826 per il colera.
In un lampo, sacro e profano, il quinto secolo delle fonti e le remote, bellicose colonie che spazzarono via gli Enotri ed entrarono in gara coi Bruttii, e il Risorgimento pagato a caro prezzo dai fratelli Bandiera, di cui qui si custodiscono preziosi documenti, si rimescolano: eccoci nel nostro tempo, in questo bellissimo Sud senza restauri.
Potrebbe Cosenza, col suo incantevole fiume, le sue rive fitte di castelli e chiese e conventi, diventare una Mantova del Mezzogiorno. Se solo.