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Francesca Santoro: “Un neurone artificiale per lottare contro Alzheimer e Parkinson”

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Questa è una bella storia perché è fatta di competenza e speranza, di professionalità e orgoglio, e perché – come tutte le belle storie – lascia in dote la percezione che i sogni si avverino, prima o poi. Basta crederci, profondere passione e assecondare il proprio talento.

Lei, la protagonista, è Francesca Santoro: leggeva i libri di Gino Strada, nella sua cameretta di Fuorigrotta, e non si capacitava di come nei paesi del terzo mondo le mine anti-uomo costringessero bambini e adulti alla disabilità a vita, nel migliore dei casi mitigata con protesi rudimentali. «Ecco, se c’è una cosa che mi ha spinto a fare la scienziata, iniziando un percorso in ingegneria biomedica, è stata l’idea di poter, un giorno, fare qualcosa per loro», dice.

Ha soprattutto fatto qualcosa, e molto sta facendo, per combattere l’Alzheimer e il Parkinson. Perché Francesca, napoletana, professoressa all’Università RWTH di Aquisgrana, in Germania, è ad appena 38 anni alla guida del team che ha inventato un microchip organico che imita il funzionamento dell’occhio umano e i meccanismi del ricordo del cervello. Promettendo, in un futuro non troppo remoto, di contrastare alcune tra le più importanti malattie neurodegenerative.

«La strada è ancora lunga ma è una ricerca più che incoraggiante – precisa – Il nostro microchip sfrutta polimeri organici fotosensibili, i cui componenti creano, in pratica, un neurone artificiale: abbiamo sostituito il silicio, utilizzato per gli hardware dell’intelligenza artificiale, con materiale organico. E lavoriamo anche su microchip non fotosensibili, riconducibili al funzionamento del sistema nervoso centrale».

La vostra invenzione ha fatto il giro del mondo. Se lo aspettava?

«Le persone cercano notizie positive, che alimentino la speranza, soprattutto su patologie che impattano la nostra quotidianità, come il cancro e le malattie neurodegenerative: in qualche modo riguardano tutti, direttamente o indirettamente. Ecco perché si è generato interesse intorno al nostro lavoro, ecco perché con senso di responsabilità spiego che l’applicazione richiede procedure di validazione lunghe, in ambito clinico, e i processi di intersezione tra il chip e il corpo umano vanno ancora approfonditi. Ma c’è un’altra cosa che è piaciuta al grande pubblico».

A cosa si riferisce?

«La speranza arriva da un team di ricerca giovane, l’età media è di 30 anni. Ecco, questo aiuta a credere nella ricerca, a riporre fiducia nella scienza. Non mi sembra poco, visti i tempi che corrono».

Lei ha studiato alla Federico II e si definisce orgogliosamente napoletana.

«In un modo che definirei imbarazzante. Sono cresciuta con lo stadio San Paolo che cadenzava le mie giornate, per l’università non dovevo neppure spostarmi. Oggi, quando torno in città, mi riscaldo con l’abbraccio del libraio sotto casa e del bottegaio di quartiere, passo per il mercato rionale. Di questa città apprezzo il cuore e l’infinita creatività, ma soprattutto l’arte di sapersi arrangiare, troppo spesso letta con un’accezione vagamente negativa. Invece è un valore aggiunto, altrove lo chiamano pragmatismo, meglio ancora: problem solving. Teniamocelo stretto, noi napoletani».

Ma lei, oggi, è cittadina del mondo. Ci racconti com’è andata.

«Dopo la laurea in ingegneria biomedica, a Napoli, mi sono trasferita una prima volta ad Aquisgrana. Qui ho lavorato con Andreas Offenhausser, uno dei padri della bioelettronica: il primo a creare un microchip in grado di interagire con una cellula del cervello umano. Poi sono andata a Stanford, Stati Uniti: nella Silicon Valley ho imparato la filosofia del “rialzati e ricomincia”, ho respirato l’aria delle possibilità. Ma Napoli era lontana, nel 2017 sono così tornata in città creando nel mio quartiere, con un gruppo di giovani, il laboratorio di Tissue Electronics dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Dal 2022 insegno all’università di Aquisgrana: con i miei studenti sono informale e aperta, questo stimola la creatività».

C’è ancora una questione di genere nell’accesso alle professioni scientifiche?

«La percentuale di donne in prima linea nella scienza, nelle cosiddette discipline Stem (dall’inglese science, technology, engineering and mathematics, ndr) è in aumento, complice una sensibilizzazione che inizia in età scolare. Anche da noi, ci sono meno pregiudizi e tabù che in passato. Rispetto a quando ho iniziato il mio percorso, non noto più battute o sguardi di superiorità da parte dei colleghi maschi. Ci manca qualcosa in termini di numeri, ma il vento del cambiamento c’è. E il messaggio che lancio è: tutte le discipline sono accessibili a tutti, non c’è alcuna predisposizione di genere».

Cosa manca all’Italia e a Napoli per essere competitivi nel settore della ricerca?

«C’è un graduale processo di valorizzazione in atto, complici i fondi del Pnrr, ma richiede tempo. Io credo che Napoli possa diventare un hub di ricerca e innovazione, partendo da eccellenze come la Federico II, e che lo sforzo da compiere sia soprattutto rendere la città più internazionale, come del resto è da un punto di vista turistico. I processi creativi hanno bisogno di apertura mentale e fisica».

Qualche anno fa Repubblica l’ha inclusa nella lista delle 100 donne che “stanno cambiando il mondo”. In cosa lo cambierebbe, oggi?

«Vorrei che le nostre ricerche impattassero sempre più sulla salute delle persone. E sogno un mondo più inclusivo, che accetti le diversità e si apra all’innovazione e alla tecnologia, senza paura».

Scienziata di successo, docente universitaria: un percorso che le costa molto, in termini di scelte familiari?

«Fare ricerca richiede sacrificio e resilienza, pazienza e coraggio. Ogni scelta finisce su una metaforica bilancia, ci sono trasferimenti continui: mettere radici con un lavoro che ti impone a muoverti è complicata. Ma un appagamento completo arriva quando si incrociano le aspettative di carriera con quelle personali: io ho un compagno virologo (napoletano come lei, ndr) e un lavoro che mi impone periodi di stress e un’organizzazione perfetta. Non so cosa accadrà nei prossimi anni, ma sono grata alla mia, di famiglia: mi ha sempre appoggiato, e non sapete quanto sia stato importante».

Che messaggio lancia ai giovani che sognano, come in fondo faceva lei leggendo i libri di Gino Strada?

«Di credere nelle proprie passioni, come ho fatto io. Sono una donna normale, semplicemente appassionata. Vorrei che le nuove generazioni avessero più strumenti per realizzarli, i loro sogni. Perché ciò accada serve che il mondo della ricerca e dell’impresa dialoghino sempre più, e che si finanzi il mondo delle startup».

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2024/01/21/news/francesca_santoro_un_neurone_artificiale_per_lottare_contro_alzheimer_e_parkinson-421937543/?rss

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