
Non è la prima volta che la questione della disabilità si pone nella rappresentazione scenica non solo come intervento sociale bensì come linguaggio e come riflessione sul linguaggio teatrale. E il “Pinocchio Che cosa è una persona?” di Davide Iodice di recente presentato a Napoli, interpretato da ragazzi con sindromi di Down, autismo, Williams e Asperger, con la Scuola elementare del teatro, ci apre la porta ad ampia considerazione.
La storia teatrale italiana è costellata di cosiddette “buone pratiche”, con esperienze significative a cominciare da Giuliano Scabia con il Marco Cavallo all’ospedale psichiatrico di Trieste, simbolo di liberazione dai manicomi; a esperienze come l’Accademia della Follia di Claudio Misculin sempre a Trieste o del Teatro patologico di Dario D’Ambrosi a Roma fino al lavoro di Nanni Garella all’Arena del Sole di Bologna. Percorsi che trovano spazio anche in rassegne dedicate e che formano un atlante del teatro come terapia, del teatro come cura. Non c’è bisogno di scomodare Artaud per rilevare il legame profondo, ancestrale tra teatro e disagio mentale, ma soprattutto come disarticolazione anche del corpo oltre che della parola, basti pensare ai riti dionisiaci di possessione e smembramento.
Un discorso infinito, vero e proprio nodo della messa in scena, il confine tra normalità e diversità dove il teatro stesso, visto da vicino, non è assolutamente il regno dei “normali”. Peter Weiss, nel ’64, scrisse “La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade” opera nella quale l’autore tedesco si divertì e molto a mescolare le carte con gli attori internati a Charenton dove a sua volta il Marchese De Sade era il regista. La Societas Raffaello Sanzio nel ’92 mise in scena un Amleto come un ragazzo autistico, solo e chiuso nei suoi bisogni corporali, a rappresentare l’afasia e il malessere già insiti nel personaggio shakespeariano; uno che del resto viene preso per pazzo dalla sua comunità di rappresentanti del potere e non a caso l’Amleto di Iodice si chiamava “Mal essere”.
Ed è ancora questo un tema, il rapporto tra teatro, diversità e potere, tra il fool, il matto che dice verità scomode al re ma può dirle mascherandole sotto la specie del riso. Oltre i confini di una lodevole azione sociale, la disabilità entra prepotentemente nella drammaturgia scenica, alterandola, mutandone la grammatica e rendendola altra, diversa. È questa l’operazione compiuta all’epoca da Leo De Berardinis a Marigliano quando chiamava in scena attori come Sebastiano Devastato, personaggio di nome e di fatto, che lavorava con lui e Perla in mezzo ai neon a disegnare l’universo narrante dei diseredati. Come Pippo del Bono che piange la scomparsa del suo Bobò, l’attore sordomuto vissuto in manicomio diventato compagno di viaggio dell’artista.
In questo percorso, la diversità è il luogo deputato della rappresentazione – diversità dell’artista in quanto medium, che si trasfigura nell’accogliere in sé il dio – si colloca il lavoro straordinario di Davide Iodice, spettacolo dove si compie una sorta di vertigine rappresentativa, tra il burattino Pinocchio, il ragazzo disabile, l’intervento delle figure dei genitori – Mastri Geppetto e Fate turchine – che raccontano insieme la storia del burattino come primo rappresentante della lunga schiera di disabili. Cos’altro è, infatti, un bambino di legno? E che cos’è una persona? Il Pinocchio di Iodice è la disabilità come linguaggio, come visionarietà, come espressività che va oltre le parole e diventa suono, gesto, bandiera.
Non si tratta quindi di accogliere la diversità e di curarla con la funzione pedagogica ed educativa del teatro, o almeno non solo. Ma di farne il proprio abecedario, come quelli che trascina come un Cristo la sua croce, il grillo parlante di Iodice. E la fatidica domanda di Amleto, essere o non essere, nel Pinocchio diventa, “Che cos’è una persona?”. Una di quelle domande insidiose che pongono i bambini e a cui è difficile rispondere come l’ultima che Pinocchio chiede a Geppetto nel ventre della balena: E dopo? La risposta, ci suggerisce il regista, non può darla solo il padre, la famiglia ma gli spettatori, cioè tutti noi.
La diversità è allora un terreno di destini incrociati dove i viandanti hanno perso l’uso della parola ma la sostituiscono con le carte dei tarocchi e nella terra del mago di Oz e dei Musicanti di Brema, incontrano altri personaggi strani che raccontano altre storie, tutte le favole della diversità che si fanno racconto, poesia, teatro.