
Io a Parigi ci vivrei, “mi accontenterei” di una bella mansarda al Marais. Sono un tifoso sfegatato e abbrutito (di quelli che imprecano davanti alla tv) del nostro Napoli, ma non mi sono strappato i capelli (che non ho) per l’addio del georgiano.
Ho un’età che mi permette di capire che se il Napoli arriva a divorare ogni cosa della tua vita, e una sconfitta ti toglie il buonumore, allora vuol dire che la tua vita ha bisogno di una sistemata. Perché il calcio resta un gioco. Perché non si va in battaglia. Perché i calciatori non sono rivoluzionari che combattono per la patria, né partigiani che rischiano la vita per la libertà. Sono impiegati, anzi manager. E un manager va dove gli offrono di più, in termini economici e di miglioramento della carriera.
La retorica della maglia andava bene un tempo, ora è retorica, appunto, è un blabla inutile e mediocre, la maglia non è una seconda pelle capace di rappresentare un’intera comunità. Kvara non è stato e non poteva essere portavoce di nessuno; qui abbiamo avuto un solo capopopolo, e sulle spalle portava il dieci. A Parigi Kvicha troverà non solo un contratto vantaggioso – dieci volte superiore a quello attuale – ma anche la possibilità di vivere una delle metropoli più affascinanti e culturalmente vivaci del mondo.
A 24 anni dovrebbe rifiutare per cosa, per restare fedele a un’idea che ormai serve a soddisfare tifosi che spesso oltre l’amore per la maglia non hanno altro? Questo vuoto va riempito da Kvara, o dalle istituzioni? Le stentate esistenze di molte classi sociali di questa città dipendono da un gol? Se è così, stiamo dando un’ulteriore attenuante alla politica. Come quando ci affrettiamo a ribadire che siamo la città più bella del mondo; perché la città più bella del mondo non ha nulla da migliorare, né da progettare. È una città immobile.
Kvaratskhelia ha dato tutto per onorare “la maglia”, come amiamo dire: ha regalato giocate magiche, gol indimenticabili e pomeriggi di pura gioia. Oggi ha il diritto di scegliere ciò che è meglio per lui, e questo non cancella il passato, né il suo contributo per lo scudetto.
Il calcio, come la vita, è fatto di momenti, non di prigionie.
E, poi, tutto finisce, pure l’amore, anche se non ve lo vogliono confessare. L’amore (tranne quello per i figli), come ogni altra cosa passa e se ne va.
A Parigi, o da un’altra parte.